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Generare soluzioni collettive appassionarsi ai segnali deboli e coltivarli, per cavalcare l’onda che supererà il paradigma

“Non si può risolvere un problema usando la stessa mentalità che lo ha creato.” Albert Einstein
Quando cambia qualcosa intorno a noi, o cambiamo noi stessi, o vogliamo che qualcosa cambi, tendiamo a ricercare soluzioni e risposte per creare un nuovo equilibrio: problemi inveterati non risolti e questioni che ci colpiscono in modo nuovo richiedono un cambio di atteggiamento o di approccio per essere affrontati.

Il contesto in cui viviamo è frutto di variabili instabili che si evolvono in continuazione e quando l’equilibrio tra loro muta, esige risposte diverse da quelle che davamo fino allo schema precedente.
Soffermarsi su tutti gli aspetti cambiati da vent’anni a questa parte sarebbe pretenzioso e scorretto.
Pretenzioso perché servirebbe un’enciclopedia dei mutamenti.
Scorretto perché questa fantomatica enciclopedia dei mutamenti andrebbe revisionata ogni istante, perché le variabili si incrociano e sviluppano continua trasformazione: quelli che ci sembrano sconvolgimenti, in realtà fanno parte di un processo in cui i segnali deboli, i cosiddetti weak signals delle teorie sistemiche e organizzative, erodono costantemente il paradigma vigente, detto strong signal, fino a cambiarne l’assetto.
Di fronte a tale consapevolezza possiamo
a) far finta di niente e viverci il paradigma, con le sue problematiche e la sua strenua e perdente tensione a mantenere lo status quo
b) acuire la nostra sensibilità per i segnali deboli, tentare di capire la trama più complessa della realtà, ma sostanzialmente rimanendo passivi
c) appassionarsi ai segnali deboli e coltivarli, per cavalcare l’onda che supererà il paradigma.
Quando abbiamo deciso di fondare Puntodock, nel 2010, eravamo in sette, sensibili e curiosi di segnali deboli. Ci siamo aggregati intorno all’idea che decisioni importanti all’interno di un’organizzazione o di una comunità non potessero essere prese da pochi, ma dovessero essere condivise cogliendo l’intelligenza e le capacità delle persone.
All’epoca questo segnale debole non suscitava molto interesse, ed erano rari i riferimenti in termini di teorie politiche, tipologie organizzative o di lavoro.
Era un’onda che cominciava a crescere e spostava il baricentro dallo scientific management, modello basato su organizzazione burocratica, standardizzazione, specializzazione, gerarchia, conformismo e controllo, alla social organization, modello basato su trasparenza, apprendimento collettivo, innovazione partecipata e co-generazione di valore.
Avevamo il nostro tema da coltivare, ma ci mancava la forma giuridica per portarlo avanti.
Erano tanti gli aspetti del paradigma attuale che non ci vedevano allineati: dinamiche in cui pochi decidono per conto di tanti, squilibri informativi che portano a diversi livelli di consapevolezza tra persone, città e persone apparentemente svuotate di prospettive, aziende lontane dal creare valore per le comunità, un Terzo Settore disorientato dalla minor capacità di investimento delle Pubbliche Amministrazioni e dei privati.
Dovevamo diventare consulenti e per impersonare quel cambiamento che volevamo, trovammo la formula cooperativa come la migliore, ispirati dai suoi principi: democrazia interna all’organizzazione, generare lavoro e non fare profitto, attenzione alle ricadute sociali delle attività.
Il cambiamento che avevamo in mente si poteva percepire da piccoli segnali, esperienze isolate, spunti illuminanti.
È probabile che la nostra stessa nascita sia stata frutto di queste scosse appena percepibili. Il senso di urgenza ci ha spinto a creare una cooperativa in grado di affrontare la questione che vedevamo e vediamo tuttora come centrale: generare soluzioni collettive.
Come sostenere l’attività istituzionale, nella definizione di politiche rivolte alle comunità?
Come supportare le imprese in un processo di maggiore collaborazione interna ed esterna?
Nella nostra visione gli Enti locali, le organizzazioni non profit e le imprese avrebbero dovuto agire per consolidare il valore sociale delle loro attività.
Ciò significa immaginare soggetti pubblici, non profit e profit, dotati di modalità operative che mettano al centro la persona, significa generare idee e progettare attraverso l’apporto di più portatori di interesse, significa usare la collaborazione multistakeholder  per aumentare le ricadute positive sulla comunità.
Necessità o virtù? Collaborare è una tra le tante opzioni? Perché preferirla al caro vecchio sistema dirigista? Nei paragrafi successivi cercheremo di sviscerare le questioni.
C’è ancora tanta strada da fare, ma il passaggio dall’“era della gerarchia” all’“era della collaborazione” sta già avvenendo e ci conviene fin da subito acquisire quest’ottica per gestire il flusso e non subirlo.
Nelle prossime pagine racconteremo quali sono le precondizioni e le esperienze che mostrano come, attraverso un approccio e l’uso di modalità collaborative, l’esperienza dell’apertura sia una delle vie principali alla sostenibilità economica, ambientale e sociale.
Questo cambiamento funziona se…
Governance
Non siamo ancora arrivati allo scontro dialettico tra bene e male, ma nel dibattito accademico e nelle pratiche l’opposizione tra goverment e governance ha assunto toni piuttosto accesi.
Quando si parla di goverment si fa riferimento al sistema di potere in cui c’è un unico soggetto che elabora e definisce obiettivi e piani d’azione: è una gestione del potere verticale, dall’alto verso il basso, impositiva, in cui la generazione di idee e la responsabilità delle decisioni assunte gravitano su un attore principale e gli altri non possono far altro che applicarle in modo passivo.
La governance è al contrario una gestione del potere in senso diffuso, in cui più soggetti contribuiscono alla generazione di idee e alle scelte, gli obiettivi delle attività vengono condivisi, stimolando un senso di appartenenza per quello che si fa, contrapposto all’obbligo privo di motivazioni esplicite tipico del government.
Come si deduce, i due approcci assomigliano molto alla dicotomia tra scientific management e social organization, che infatti raffigurano gli stessi concetti, ma applicati ad ambiti nominalmente diversi: i primi al potere e i secondi alle organizzazioni.
L’obiettivo tanto della governance quanto della social organization è assumere decisioni e realizzare progetti grazie all’interazione e al contributo di ogni portatore di interessi, che si sente quindi coinvolto in una dinamica di potere nella quale ha diritto di parola e non è più esecutore passivo.
Non c’è più un “vertice” che decide e impone alla “base”, perché ci si è resi conto che la verità assoluta non esiste e nessuno ne è detentore: sindaci, dirigenti, direttori aziendali, rischiano di perdere man mano legittimità se non coinvolgono altri nella gestione del potere.
Questo discorso vale tanto per le Pubbliche Amministrazioni, quanto per le aziende, le organizzazioni del Terzo Settore (associazioni, cooperative, fondazioni, organizzazioni non governative, …) e le comunità intese come insieme di persone associate su base territoriale, per interessi o obiettivi.
La governance collaborativa è un modo di agire, basato su tre pilastri:
  • cultura tesa all’apertura, alla sperimentazione, all’adattabilità,
  • spazio dedicato all’analisi e alle decisioni da prendere insieme,
  • rete tra persone e organizzazioni, sia in senso fisico, sia in senso digitale.
Come ha funzionato finora il rapporto tra Pubblica Amministrazione, privati e comunità? Gli ultimi due fanno pressioni, l’Ente pubblico alloca le risorse, cofinanzia attività o emette un bando, che viene vinto da un soggetto privato, e infine l’Ente pubblico controlla che le attività che ha cofinanziato o per cui ha fatto il bando siano svolte.
L’esperienza ci mostra come il sistema finora usato per le gare d’appalto e i bandi sia quanto mai anacronistico e inefficace, e porti a servizi sempre più scadenti, risposte date ai bisogni delle persone sempre più inadeguate e infine uno scollamento ancora più netto tra cittadini, imprese e istituzioni pubbliche.
Purtroppo i casi in cui questa logica non ha funzionato colpiscono in modo omogeneo tutta la nostra penisola, ma esistono esempi in cui i governi di città e addirittura regioni hanno aperto le decisioni alla comunità e alle realtà imprenditoriali: una volta scelto un tema sul quale decidere e agire, vengono attivati processi nei quali vengono convocati gli stakeholder, ovvero i portatori di interesse, e cioè le persone o le organizzazioni che conoscono il tema, che sarebbero coinvolti dalle conseguenze delle decisioni o che sono interessati a lavorarci.
L’iter del coinvolgimento deve essere coordinato affinché sia efficace, e porta gli stakeholder a condividere le problematiche riscontrate fino a quel momento, identificare obiettivi condivisi, pianificare le azioni più sostenibili per il raggiungimento dei risultati decisi insieme.
Processi del genere mettono di certo in crisi il potere unipolare, hanno bisogno di tempo per essere realizzati, ma portano a effetti positivi come ad esempio:
  • ampliamento delle informazioni alla base delle decisioni,
  • identificazione di obiettivi e scelte condivisi,
  • maggior senso di responsabilità per chi poi a quelle scelte si dovrà adeguare o le dovrà mettere in pratica,
  • ottimizzazione delle risorse disponibili, perché ognuno tenderà a mettere le sue competenze al servizio degli obiettivi comuni,
  • processo migliorativo nella presa di decisioni, che porta a risposte più adattive.
Ecco perché parliamo di collaborazione: per agire su un tema o una problematica in modo efficace è necessario mettere tutti i portatori di interesse in condizione di esprimere le proprie capacità.
Prosumer
Qui le acque si confondono. Cosa significa prosumer?
Che ci piaccia o meno, come abbiamo già evidenziato, l’epoca dei compartimenti stagni sta vivendo il suo crepuscolo: oggi siamo tesi in continuazione verso una promozione o un nuovo lavoro, gli aggiornamenti sono all’ordine del giorno, informazioni e tecnologie aprono mercati con velocità sorprendente.
E questo vale sia per il settore pubblico sia per quello privato.
Lo stesso concetto di lavoro, in questa nostra epoca post-industriale, subisce profonde modifiche: dal ruolo sacrale e cristallizzato è divenuto elementare grandezza fisica, cioè trasferimento di energia cinetica tra due sistemi attraverso l’azione di una forza. Il lavoro non è più un oggetto, se lo è mai stato, per il quale si può affermare “c’è” o “non c’è”, ma è energia dovuta ad uno spostamento. Il senso di un lavoro non risiede più solo in quello che si produce, ma nell’impatto generato dal lavoro stesso.
Ecco che la vendita e la massimizzazione del profitto diventano secondarie rispetto all’attenzione posta sia sui beneficiari sia sulle esternalità dell’attività imprenditoriale. Questa trasformazione è dovuta non tanto ad una impennata di senso etico tra le imprese, quanto ad una serie di mutamenti acuiti dalla contingenza economicosociale che stiamo vivendo.
Per fare qualche esempio decidono di chiudere o vendere imprese ancora vitali: gli ex dipendenti si auto-organizzano e ripristinano l’attività o reinventano un business sfruttando le competenze e i beni acquisiti.
Cooperative di comunità nascono per acquistare o produrre beni, come alimenti o energia elettrica, abbattendo i costi e rinnovando patti di prossimità e di relazione tra persone.
Nell’economia della condivisione, o sharing economy, sorgono piattaforme per incrociare domanda e offerta di qualsiasi cosa: alcune mirano a fare profitto, mentre altre hanno l’obiettivo di ricreare legami tra persone, espandere conoscenza o valorizzare competenze. Ci possiamo limitare ad uno scambio attraverso uno smartphone, oppure utilizzare l’economia collaborativa per creare innovazioni più profonde e socialmente rilevanti.
Nell’iter che conduce un’idea dal concepimento fino alla realizzazione e alla diffusione, il confine tra chi produce e chi usa è sempre più sfumato: fino a pochi anni fa, la parola “consumatore” chiariva in modo ineccepibile che il ruolo delle persone nell’interazione con un prodotto o un servizio era quello di “usatori finali”, ai quali al massimo si poteva sottoporre un’intervista ai fini di marketing.
Il consumatore, anche nell’immaginario collettivo, si è evoluto in utente, portatore di diritti e di un punto di vista soggettivo. Da anello finale della catena, sta conquistando sempre più la posizione di fulcro del sistema.
In base a questa traiettoria, il prosumer è la somma di consumer e producer, partecipa cioè all’ideazione, alla sperimentazione, all’elaborazione degli stessi criteri valutativi, e non da solo. Qui sta la vera rivoluzione, perché non stiamo parlando di un rapporto uno a uno, tra impresa e prosumer, ma tra tanti a tanti: diverse categorie di prosumer dialogano e generano idee su un tema, un prodotto o un servizio, creando valore aggiunto attraverso la ricchezza e la diversità delle competenze e delle esperienze di cui sono naturalmente portatori.
Tante imprese gestiscono forum o gruppi di lavoro in cui professionisti, appassionati, clienti e l’azienda stessa si confrontano, discutono, migliorano e generano insieme nuove idee.
L’impresa collaborativa rappresenta l’evoluzione del paradigma della Responsabilità Sociale di Impresa, che si concentra in una serie di investimenti dell’azienda che vuole promuovere, oltre al suo business, anche iniziative etiche e benefiche.
Quello che si cerca di fare oggi è un passo ancora oltre: superare i muri intra ed extra aziendali per produrre valore e risposte condivise, attraverso l’interazione tra portatori di interesse. Ognuno legittimato e supportato nell’espressione del proprio punto di vista e delle proprie competenze.
Devo mettere mano ad una ristrutturazione aziendale? Quale miglior modo se non coinvolgendo dipendenti, utenti, conoscitori del mercato, fornitori, tecnici?
Spesso si parla di evoluzione del reparto Risorse Umane, perché l’impresa collaborativa prende le mosse da attività rivolte all’interno dell’organizzazione, allo scopo di rendere i lavoratori consapevoli e coinvolti nelle scelte fondanti dell’azienda, e in modo che i reparti siano in grado di dialogare, confrontarsi ed agire secondo obiettivi, risultati e un piano condiviso.
Un’impresa può spingersi anche oltre, e cioè allargarsi fino a comprendere una comunità, definita su base territoriale o di scopo. La propria comunità di riferimento viene inserita e contemplata nei processi aziendali, così da contaminare in positivo l’operato dell’azienda, fin dalla definizione del valore offerto, che si tratti di alimentazione sana o servizi agli anziani, aumentando le ricadute positive sui soggetti ai quali l’impresa si rivolge.
Social
Nei ragionamenti che abbiamo portato avanti c’è un filo rosso, un rizoma che collega le ninfee che vediamo pian piano fiorire.
Il cambiamento immaginato finora dipende in larga parte dalla volontà e dalla capacità, nel pubblico e nel privato, di portare al centro delle proprie azioni la comunità.
Nel momento in cui le attività pubbliche o private sono ispirate al principio della ricaduta sociale, o impatto sociale, o utilità sociale, si riducono automaticamente le esternalità negative e si punta a raggiungere il più alto grado di efficienza, efficacia e sostenibilità, consendendo anche all’approccio collaborativo di dare il massimo dei suoi frutti.
Il nuovo modello dovrebbe avere la collaborazione come modalità e il bene collettivo come valore consegnato alle persone e ai prosumer.
Per raggiungere questo stato, la tecnologia può essere di grande aiuto, sia per diffondere informazioni e quindi allineare le persone sullo stesso livello di conoscenza, sia per supportare interazioni che però devono essere anche fisiche, perché per quanto possa il digitale, abbiamo ancora un bisogno atavico di stare insieme, parlare e confrontarci guardandoci negli occhi.
Inoltre lo scambio di informazioni e la trasparenza, alla base della social organization, sono elementi necessari ma non sufficienti affinché la collaborazione tra portatori di interesse avvenga in modo efficace ed efficiente. A questi si deve aggiungere la presa in carico di un ruolo di coordinamento, che a seconda dei livelli e dell’ambito di lavoro può essere assunta da un soggetto pubblico o da un soggetto privato.
Già nel XIX secolo, alle origini del movimento cooperativo, le riflessioni avevano condotto a un modello organizzativo e imprenditoriale ispirato a principi come l’adesione libera e volontaria, il controllo democratico e la partecipazione economica dei soci, l’indipendenza, la formazione continua, l’interazione tra cooperative e l’impegno verso la collettività.
È su questi pilastri che può fondarsi il lavoro comune delle comunità, delle Pubbliche Amministrazioni e delle imprese.
Sono questi il senso sociale del lavoro e l’anima della collaborazione.