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I pirati della Scuola Open Source

Non è possibile immaginare un’innovazione tecnologica che non nasca da un’esigenza, una passione o una curiosità umana. E quando l’innovazione è solo tecnologica, e non sociale, spesso diventa “speculazione sull’ignoranza degli altri”.

 
Come nasce La Scuola Open Source?
L’associazione è composta da 13 soci, perciò alle domande si risponde sempre insieme. Non esiste un interlocutore specifico perchè: « Ci piace definirci “pirati”…
Come molti, avvertiamo che le condizioni culturali, sociali ed economiche in cui ci muoviamo sono cambiate, ma che le risposte che vengono fornite aderiscono ancora a modelli passati.
I percorsi formativi sono standardizzati e sterili, producono – spesso – figure professionali obsolete, con hanno grandi difficoltà ad inserirsi nel “mondo del lavoro”.
L’idea che dovrebbero essere gli studenti a decidere cosa studiare e con chi ci ha sempre affascinato. Crediamo che apprendimento in situazione, osmosi tra discipline diverse e non linearità dei percorsi siano fondamentali. 
Per questo ci siamo interrogati su quale direzione dare al progetto e abbiamo immaginato uno spazio di innovazione sociale e tecnologica aperto – in tutti i sensi – e attraversato da influenze diverse e progetti condivisi.
Non bastava rinnovare i contenuti, però: era evidente che anche le modalità di creazione, trasmissione e fruizione andavano innovate, per questo ci siamo spinti verso forme educative copartecipate, recuperando il modello platonico e ricombinandolo con la cultura hacker.
Alla fine del 2015, tutto questo si è concretizzato nella Scuola Open Source, grazie all’opportunità offerta dal bando CheFare, che l’ha finanziata.
 
Il mix tra cultura e tecnologia può essere la carta vincente per far “ripartire il futuro”?
Riteniamo che cultura e tecnologia non possano essere separate, è la storia dell’umanità a dimostrarlo, del resto. Non è possibile immaginare una innovazione tecnologica che non nasca da un’esigenza, una passione o una curiosità umana.
E quando l’innovazione è solo tecnologica, e non sociale, spesso diventa “speculazione sull’ignoranza degli altri”, che non hanno accesso alla vera innovazione, ma solo a un prodotto o un servizio “chiusi”.
Nel pratico lo vediamo in chi si avvicina alle attività della SOS: chi vuole approfondire una competenza tecnica lo fa soprattutto per trovare una forma d’espressione e di connessione con la società, per partecipare al cambiamento, non semplicemente per acquisire un’abilità
in più.
 
La conoscenza, per voi, passa attraverso il “learning by doing”. Una risposta alle tecniche d’insegnamento troppo teoriche e obsolete delle università italiane?
Apprendere facendo, assieme ad altri, utilizzando il metodo dialogico e favorendo l’osmosi naturale delle competenze, ci sembra restituisca un ruolo centrale alle dinamiche sociali nell’apprendimento, e quindi per noi è di primaria importanza.
 
Fonte: vita.it