/Una «generazione perduta» che cerca un riscatto in un territorio dove è ancora possibile «sognare» dei progetti di vita realizzabili.

Una «generazione perduta» che cerca un riscatto in un territorio dove è ancora possibile «sognare» dei progetti di vita realizzabili.

Un ritorno di neorurali nostalgici del “tempo che fu”, frikkettoni o post-sessantottini, pronti a rifiutare comodità e servizi per rinchiudersi in un posto isolato e da eremiti?

Nient’affatto, si tratta invece di cittadini che scelgono di vivere in montagna rivendicando a gran voce servizi e comodità. Persone che, per assurdo, nel momento in cui lasciano i centri urbani di pianura per trasferirsi in montagna, riaffermano il diritto alla città, anche nel cuore delle Alpi. Un diritto alla città inteso come civitas, fatta di legami sociali, servizi e istituzioni capaci di offrire ai cittadini, dovunque risiedano, i vantaggi di una vita, per l’appunto, civile.

Penso sia stata proprio Anna a farmi riflettere per la prima volta sull’idea di lasciare la città. Ero seduto sul muretto di pietre a secco di fronte alla nostra casa di montagna. Eravamo appena tornati da una camminata, e mi godevo la lucidità che solo l’«aria sottile» riesce a dare al flusso di pensieri di un quarantenne irrequieto. Tra le mille parole al minuto, tipiche dei bambini della sua età, Anna, a un certo punto cattura la mia attenzione: «Papà, ma perché non veniamo a vivere in montagna?».

E il rischio d’impresa? E ai miei figli e alla mia famiglia chi ci avrebbe pensato? Ma che società è quella in cui persone che lavorano fianco a fianco per anni un giorno si svegliano e ti pugnalano alla schiena? Non è forse il segnale di una società ormai sclerotizzata, in cui un sistema perverso di «guerra tra poveri» fa tabula rasa non solo dei diritti dei lavoratori, ma anche dei rapporti sociali? Basta, mi ero trovato a pensare, ormai la vita in città offre solo più frustrazioni, precariato e spese in aumento. Meglio cambiar aria. Ma come spesso succede, sbollita la rabbia, il raziocinio riprende terreno e ha la meglio sulla parte irrazionale che alberga in ognuno di noi. Perché chi mi dice che il problema sia davvero la città, e che le cose su, in montagna, vadano meglio?

Poi quella frase innocente, che improvvisamente risveglia pensieri che credevo fugati. E questi pensieri mi si affollano in testa, annullando l’effetto benefico della passeggiata e dell’aria sottile: il tradimento lavorativo, il mio conto in banca a -45 euro, la frustrazione di dover chiedere, a 40 anni suonati, 2000 euro ai miei genitori per riuscire a far fronte alle spese, vent’anni di esperienza lavorativa che rischiavano di finire nel cesso, l’ennesimo inizio di una nuova esperienza professionale in cui investire tempo e fatiche, da cercare, creare, sviluppare ecc.

Mentre sono assorto nei miei pensieri sento le campane della mandria di mucche belle pasciute che Irene, la pastora, conduce al recinto dai pascoli per poterle mungere. Irene non ha ancora trent’anni, ha preso in mano l’azienda di famiglia dopo la morte del padre e produce burro e formaggi. Vive cinque mesi l’anno in alpeggio e lavora 365 giorni all’anno, senza ferie estive, senza settimane bianche né viaggi tropicali o visite nelle capitali europee. 

Una «generazione perduta» che cerca un riscatto in un territorio dove è ancora possibile «sognare» dei progetti di vita realizzabili. […] La montagna comincia a essere vista da qualcuno come la «terra promessa», dove le giovani generazioni possono ambire a ruoli sociali ormai impensabili in città. E la «generazione perduta» dà il suo contributo in termini numerici all’attuale fase di «ritorno alla montagna». Un ripopolamento alpino, o meglio, come sottolineano più prudentemente gli studiosi, «un’inversione di tendenza dello spopolamento», che da alcuni casi sporadici oggi è diventato un vero e proprio fenomeno.

Non è ancora il momento. Ma allo stesso tempo non voglio far cadere nel nulla l’ipotesi di Anna, perché a volte i bambini vedono più lontano degli adulti. Io non ci credo ancora che la città sia diventata ormai invivibile per una parte della mia generazione, e anche se il castello delle mie sicurezze urbane vacilla, non sono ancora del tutto convinto a lanciarmi nella costruzione di nuovi scenari montanocentrici possibili. Sono cresciuto nel mito del progresso, in un periodo nel quale il modello occidentale, per l’appunto urbanocentrico, sembrava non avere rivali. Crescita, e libertà, e democrazia, ed Europa. Tutti in pace, potenzialmente ricchi, felici e contenti. 

Eppure Walter Benjamin, già a partire dalla prima metà del Novecento, ci aveva ammonito attraverso l’osservazione del quadro di Klee Angelus Novus, di come l’angelo della storia, con il viso rivolto al passato, vede la catena di eventi susseguirsi come una sola catastrofe, «che accumula senza tregua rovine su rovine». Vorrebbe fermarsi, «destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle».

La tempesta lo spinge, suo malgrado, nel futuro, «mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui e al cielo. Ciò che chiamiamo progresso – ammonisce Benjamin – è questa tempesta».

[…] La resilienza delle zone marginali, montagna in testa, diventa uno dei punti di partenza per pensare e costruire nuovi sistemi. Ma non si tratta di nostalgie o tentativi di ritorno al passato. Quanto piuttosto di una rilettura di ciò che di buono c’era un tempo con nuovi strumenti innovativi. Si tratta di persone pronte a investire soldi, tecnologia, conoscenze in nuovi progetti di vita, con un occhio di riguardo alla sostenibilità e l’altro alla qualità della vita. La montagna vista come un laboratorio di innovazione alla ricerca di nuovi modelli di vita più equilibrati, attenti all’intorno, alla felicità e alla salute propria e della famiglia.

Una teoria affascinate, senza dubbio. Ma sarà poi veramente così lineare, da sembrare una scelta semplice, quasi ovvia? Conosco tanti casi di successo quanti fallimenti. E prima di pensare a una scelta così importante, per me e per la mia famiglia, prima di condividere questi sentimenti con la mia compagna, voglio provare a capirci di più attraverso l’esperienza di chi questa avventura l’ha vissuta davvero. Andrò a trovare i pionieri, quelli che si sono trasferiti dalla città e riescono a vivere in montagna, per provare a confrontarmi con loro e capire se è davvero un’opportunità o se è solo l’ennesima illusione. Per capire se la nuova «terra promessa» della «generazione perduta» può davvero essere, anche, la montagna. […]

Sono ormai tante le persone «in fuga» verso la montagna e molte di loro le conosco bene. Non mi resta che andarle a trovarle, stare con loro, farmi raccontare le motivazioni della loro scelta, le esperienze e le prospettive per avere un quadro il più possibile completo e decidere cosa rispondere ad Anna.

Fonte – che-fare.com