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La cultura della formazione in azienda

La cultura della formazione in azienda

Premessa

L’argomento della “cultura della formazione”, visto come riferimento più generico alla cultura gestionale ed organizzativa che troviamo nelle aziende, è da sempre trattato con poca attenzione. L’enorme offerta di tools metodologici per gestire progetti formativi sembra voler configurare un “dovere” relativo alla formazione. Tutto ciò lascia in ombra l’esigenza di sottoporre ad indagine categorie concettuali. Gli stakeholders coinvolti nel processo utilizzano per discutere della formazione e giudicarne gli effetti.

La presenza di una cultura della formazione condivisa e atta a sostenere l’attuazione dei progetti formativi rappresenta il fattore chiave per vincere la sfida del superamento di quella definita dagli studiosi la “formazione apparente”. Ossia una formazione che non ha capacità di incidere nei processi reali di lavoro. A differenza di quanto avviene per i programmi di formazione professionale e/o addestramento non sono date le condizioni di contesto che consentono facilmente di trasferire nella prassi lavorativa le competenze apprese durante le iniziative corsuali.

Il tema di come valutare il “ritorno dell’investimento formativo” è esso stesso oggetto di numerose proposte metodologiche. Vi è la necessità di comprendere perché le prassi valutative siano poco diffuse. E’necessario creare nelle aziende delle condizioni organizzative e culturali idonee a garantire un effettivo ritorno.

DEFINIAMO “cultura della formazione”

Nelle aziende esiste una grande variabilità di connotazioni assunte dalle politiche di formazione del proprio personale. Variabilità di budget, di articolazione, consistenza di organico e prerogative decisionali delle strutture dedicate alla formazione aziendale. Aggiungiamo anche di finalità perseguite attraverso la leva della formazione, di processi di elaborazione di piani e programmi, di metodologie formative impiegate ecc.

Il termine “cultura della formazione” è stato utilizzato, per spiegare tale variabilità di situazioni e il tema dello sviluppo di una cultura della formazione è stato correlato alla capacità delle aziende di usare la formazione del proprio personale come leva strategica per rispondere alle sfide provenienti dal contesto esterno e per migliorare le proprie performance.

Per cercare di precisare che cosa s’intenda per “cultura della formazione” di una determinata azienda potremmo, definirla come “l’insieme di convinzioni, di idee generali, di pratiche e di valori che – in un dato momento della storia aziendale – legittimano, danno senso, indirizzano le prassi formative all’interno di un’organizzazione e che sono utilizzati per giudicarne l’efficacia” .

Il richiamo ad un dato momento della vita aziendale intende mettere la definizione al riparo dai limiti di una “prospettiva integrativa” di analisi della “cultura”organizzativa, quando essa venga ricondotta unicamente ai valori istituzionalizzati, che hanno messo radici in una organizzazione determinandone un’identità che dura nel tempo, trascurando in tal modo di chiamare in causa le dinamiche attraverso le quali i diversi attori sociali contribuiscono nel tempo a modificarla.

LA cultura di un’organizzazione

Essa può essere definita come un insieme di criteri di senso, pratiche e codici simbolici sufficientemente condivisi, prodotti attraverso
le interazioni sociali e costantemente rielaborati dai diversi attori sociali impegnati in una continua negoziazione di significati. In tale processo di rielaborazione e negoziazione entrano in gioco molteplici fattori. Le relazioni tra i soggetti, la loro identità, le diverse posizioni nel “campo”, le dinamiche di potere.

È da questa accezione che vogliamo partire per analizzare i fattori che possono determinare le caratteristiche della “cultura della formazione”. Da un lato essa è espressione del gruppo dirigente al vertice dell’azienda. Gruppo che legittima costantemente le proprie scelte strategiche e gestionali in riferimento ad un insieme di “teorie” e di valori. I cui discorsi, anche quelli attorno alla formazione, hanno una rilevanza primaria. La cultura della formazione è quindi determinata fortemente da ciò che, in merito a piani e programmi formativi, decide e argomenta il gruppo dirigente.

Una visione dinamica

D’altra parte, nell’ambito della visione dinamica della cultura che abbiamo proposto, occorre subito dire che la cultura formativa dei vertici aziendali trova significato solo se messa a confronto con le culture degli altri stakeholders: il responsabile del Personale e dell’Ufficio Formazione, i formatori interni, i consulenti-formatori esterni all’azienda (impegnati nel “vendere formazione”, ma anche nel realizzare i progetti a loro affidati), il middle management, il sindacato, gli utenti di iniziative di formazione, ed altri ancora.

La semplice elencazione degli stakeholders e la riflessione sui diversi interessi, sulle diverse priorità che possono connotare le loro agende, sulle asimmetrie di potere di cui dispongono, fa comprendere quanto difficile sia raggiungere una cultura unitaria e atteggiamenti sinergici nella gestione dei progetti. Gli utenti dei piani e dei programmi di formazione hanno possibilità di incidere sulla cultura della formazione in azienda se hanno accesso – in maniera non solo rituale – all’“opzione voce” attraverso effettive inchieste sui bisogni formative, indagini di follow-up ed altro.

Il ruolo centrale dei formatori

Nella connotazione che la cultura formativa assume in un’azienda, pesano senza dubbio anche le esperienze che i formatori portano e le idee che essi (intesi come membri di una ben visibile comunità professionale che comprende formatori aziendali, associazioni professionali, rappresentanti di società di consulenza, docenti universitari che scrivono sul tema, ecc.) hanno sugli obiettivi e sulla qualità della formazione, e sulle modalità operative attraverso cui si può presidiare tale qualità in ciascuna fase di un progetto formativo (analisi dei fabbisogni, progettazione, realizzazione, valutazione dei risultati).

Ogni formatore, in quanto tecnico in grado di padroneggiare teorie e metodologie specifiche, ed impegnato a tenere aperti i canali di confronto con la propria comunità professionale, ha in mente quali dovrebbero essere gli “standard di qualità” da rispettare nelle varie fasi di impostazione ed attuazione dei progetti formativi; aderisce inoltre, più o meno esplicitamente, ad un codice etico condiviso all’interno della propria comunità di riferimento che ne orienta l’agire.

Costruire la cultura della formazione

Nella costruzione della cultura della formazione interviene dunque l’adozione di principi, criteri e linee-guida e pratiche aventi una validazione, finanche a livello internazionale, da parte della comunità professionale dei formatori: tali principi configurano quindi una sorta di “cultura formativa a cui tendere” che i professionisti della formazione si sforzano di promuovere all’interno delle organizzazioni. Gli Uffici Formazione e le risorse professionali da essi attivate, interne ed esterne, forti delle accennate competenze disciplinari, dispongono quanto meno di un “potere di influenza” rispetto alle decisioni in merito alle politiche formative in azienda.

Sono loro che sono in grado, oltre che di identificare le più idonee metodologie, di prospettare taluni contenuti, di raccontare cosa avviene in altre aziende ed altro ancora. Tuttavia tali risorse non sempre rappresentano -sulla base della nostra esperienza- un elemento decisivo nello sviluppo della cultura della formazione in azienda, posizionandosi generalmente più sul “come” che sul “perché” della formazione, più sugli strumenti che sulle finalità, finalità che debbono necessariamente inscriversi nelle strategie definite dai vertici aziendali e, più specificatamente, nella people strategy adottata.

Se si vuole sostenere una cultura in cui la formazione assuma un valore strategico, i soggetti che si occupano dei processi formativi devono dialogare con il Management, entrare nel merito dei fini organizzativi che si perseguono con i vari progetti formativi, cogliere le possibili incongruenze tra finalità palesi e latenti e, in particolare, contrastare i pericoli di restare prigionieri della sindrome della “formazione apparente”.

La valorizzazione del “capitale umano”

Esiste, nei discorsi diffusi, un’unanime sottolineatura della rilevanza del “capitale umano”, come vero asset strategico per le aziende che vogliano essere all’altezza delle sfide poste dallo sviluppo sempre più rapido di quella che è stata chiamata la “società della conoscenza”. Chidunque può dissentire rispetto all’esigenza che ogni azienda ha di riuscire a creare un contesto organizzativo in cui – come si afferma nella citazione sopra riportata – «everyone learns, and everyone enhances their exceptional abilities»?

In effetti, una vastissima pubblicistica, a partire dagli atti dell’Unione Europea, in cui si ribadisce la necessità di «investire ulteriormente nel capitale umano tramite il miglioramento dell’istruzione e delle competenze», sembra oggi corroborare ampiamente questa cultura della necessaria valorizzazione del capitale umano.  Rifkin, il teorico della New Economy, nel 2000 sosteneva che nel «capitalismo culturale, la cultura non è più una sovrastruttura, ma una forza produttiva effettiva».

Osserviamo qui solamente che, pur essendo difficile accedere a precise statistiche sugli investimenti formativi. La sensazione di chi opera nel campo della formazione è che non si registri, come ci si aspetterebbe, stanti le dichiarazioni sulla rilevanza strategica del capitale umano, una crescita verticale degli investimenti. Anzi, in presenza dei primi venti di crisi di mercato o di restrizione della finanza pubblica, ci si affretta spesso a stringere i cordoni della borsa proprio partendo dai budget della formazione.

Se gli investimenti per sviluppare il capitale umano fossero considerati veramente strategici ci si aspetterebbe, oltre ad una forte crescita degli investimenti formativi, una più marcata attenzione anche alla valutazione del loro ritorno.
Difficile è dunque non pensare che le affermazioni sulla rilevanza strategica del capitale umano nella società della conoscenza siano connotate da un’abbondante deriva retorica.

E’ tempo di quesiti

Tutto questo ci induce ad interrogarci su una serie di questioni relative alla cultura della formazione che troviamo presente, in un dato momento, in una data organizzazione. Per esempio, in che termini possiamo parlare di aperture verso processi di apprendimento organizzativo piuttosto che della persistenza di un orientamento a sostegno di modalità non più funzionali di gestione? Quali sono le ragioni del permanere di una cultura gestionale che spesso appare poco propensa a mettersi in discussione? Cosa comporta tutto questo in termini di effettive possibilità di cambiamento dei modelli manageriali, sui quali pure si spendono numerosi programmi formativi? La risposta da dare alle domande sopra formulate non può essere, a nostro modo di vedere, troppo generale.

Esiste una variabilità di situazioni nelle quali chi propone iniziative di formazione può giocare un ruolo, anche rilevante, nella costruzione di una cultura della formazione. Capace di uscire da affermazioni ritualistiche e restituire valenza strategica (e non retorica) alla valorizzazione dei saperi. È su questo terreno di gioco, fatto di discrasie tra intenzioni dichiarate ed intenzioni reali, di fraintendimenti nei codici linguistici utilizzati. Ma anche di problemi organizzativi che reclamano una soluzione, di attori sociali che desiderano accettare le sfide. Ed altro ancora, che i responsabili della formazione e i formatori si trovano ad interpretare il proprio ruolo.

Il ruolo degli stakeholders

È un terreno spesso fluido dove si confrontano e scontrano, nell’attivazione e gestione dei progetti formativi, punti di vista ed interessi diversi dei vari stakeholders; punti di vista ed interessi che si possono modificare nel corso dello svolgimento di tali progetti. Si tratta per i responsabili della formazione di guadagnare nel corso dei progetti formativi, spazi più ampi per consentire all’azienda di beneficiare di nuove competenze. E valorizzare davvero il potenziale professionale delle persone coinvolte.

Quella che qui proponiamo è dunque una concezione del ruolo del Formatore, interno o esterno che sia, diversa da quella prevalente. Ispirata ad un “approccio politico” allo sviluppo della cultura della formazione. Riconducibile alla metafora del “gioco di implementazione”, ed, in particolare, alla capacità di produrre un sufficiente consenso sulla esigenza di non accontentarsi delle mode.

Andare oltre la formazione apparente

Di lavorare per costruire le condizioni organizzative che consentono realisticamente di andare al di là della formazione apparente. Si tratta, in altri termini, per un formatore, di accettare di operare come “agente di cambiamento culturale”. In grado di riconoscere come i processi formativi costituiscano un campo di azione nel quale sono presenti molteplici attori sociali. Ognuno portatore di proprie attese ed interessi e di un suo specifico potere di influenza.

In tale campo di gioco anche i discorsi e le retoriche che si sviluppano attorno alla formazione sono espressione di una tensione per ridefinire e la propria posizione. Ora dobbiamo però allargare un po’ il campo della riflessione. Consideriamo assieme i processi di formazione e quelli di apprendimento, o meglio le iniziative formative formalmente strutturate. Ed anche le occasioni di apprendimento che hanno luogo nello svolgimento delle attività lavorative o che passano attraverso la partecipazione a gruppi e comunità professionali.