Di “Coding” si parla sin dal 2015, in particolare per quanto attiene il suo impiego didattico nelle Scuole; ma siamo sicuri di conoscerlo (e soprattutto di impiegarlo didatticamente) bene? Di seguito il nostro punto di vista.
La legge 107/2015, meglio conosciuta come Riforma denominata “La Buona Scuola”, introdusse in Italia il concetto di “Coding” definendolo una ineludibile risorsa per migliorare l’azione didattica e i processi di apprendimento.
Ma cosa vuol dire questo termine? Cosa vuol dire, in poche parole, “fare Coding”?
Per rendere l’idea di quanto il significato di questo termine e delle attività che lo stesso vuole indicare, può servire a titolo di esempio un aneddoto abbastanza curioso, accaduto in tempi non proprio recenti, quando di “Coding” si parlava e si dibatteva sui social, non per questo meno emblematico.
Correva l’anno 2016, un anno funesto a causa dei ripetuti terremoti che scuotevano la nostra penisola. Nelle Scuole comparvero istruzioni da seguire in caso di terremoto: una serie di comportamenti da attivare per evacuare l’edificio scolastico, un vero e proprio elenco di azioni da seguire in caso di evacuazione improvvisa.
Ebbene, una Docente ebbe un’idea geniale, ed entusiasta di tale idea propose a in gruppo di Colleghi: “Colleghi, che ne dite se facciamo un Coding sul terremoto?”
Resta ancor oggi alquanto oscuro come una scossa tellurica possa dare origine alla scrittura di un codice in grado di porre al riparo una scolaresca dalle conseguenze di un sisma; al più, erano presenti nelle Scuole precise disposizioni da seguire per non subire le prevedibili conseguenze di un terremoto.
Se così fosse, anche chi compila le istruzioni d’uso di una lavatrice “fa Coding”. In realtà, a parte il carattere alquanto paradossale quanto ingenuo dell’episodio narrato, in cosa consiste l’attività di “Coding” vera e propria?
Vediamo di fare chiarezza
Letteralmente, il termine “Coding” significa “Codificando”; è quindi riferito all’attività di “scrivere codice sorgente” allo scopo di realizzare un “programma” che una macchina, un computer è in grado di eseguire.
Negli Stati Uniti, da cui il Coding è stato importato in Italia, quest’ultimo fu introdotto dall’allora Presidente Obama allo scopo di favorire l’integrazione razziale, sviluppando in coloro che vi si approcciavano competenze idonee a creare nuove opportunità di lavoro e di inserimento nel tessuto economico e sociale del Paese.
In Italia, il Coding ha perseguito tutt’altri, ambiziosi obiettivi, ponendosi come risorsa strategica in grado di fornire agli Insegnanti una nuova metodologia di apprendimento da utilizzare con i propri Allievi. A tale scopo fu anche istituita una apposita piattaforma, denominata Code.org contenente materiali ed esercitazioni utili a supportare il Docente nel “fare Coding” con i propri Allievi, sin dalla Scuola dell’Infanzia (peccato che la maggior parte dei suddetti materiali fosse in lingua inglese).
L’ambiente Scratch
Alla piattaforma in questione si aggiunse la diffusione di ambienti cosiddetti “A blocchi (emblematico l’ambiente “Scratch”)”, una sorta di “codice-Lego” che si caratterizzano per la possibilità di realizzare un programma eseguibile mediante l’incastro di blocchetti colorati: l’obiettivo era quello di consentire anche ai bambini più piccoli di realizzare un programma senza scrivere righe di codice. Peccato che molti dei blocchi deputati a far muovere o ruotare il cosiddetto “Sprite”, ovvero il personaggio che appare sullo schermo e si muove nel rispetto delle istruzioni ricevute, sia necessario conoscere, ad esempio, il concetto di ampiezza di un angolo di rotazione, come anche il numero dei passi che lo Sprite deve compiere, e che tali dati debbano essere inseriti in apposite “finestrelle” interne a ciascun blocco secondo un codice comunque alfanumerico.
Per poterlo fare, l’Allievo deve ovviamente padroneggiare sia lettere e numeri, sia il concetto di rotazione oltre a indicare nell’apposito blocchetto la lunghezza della linea da far disegnare durante il percorso compiuto dallo “Sprite”.
Sull’ambiente “Scratch” si è molto discusso: per molti, questo ambiente è risultato una vera e propria rivoluzione didattica, che ha fornito l’occasione di introdurre a diversi livelli il concetto di “Pensiero Computazionale”; ed anche in questo caso, in diversi contesti, si è generata una certa confusione che merita qualche considerazione.
Seymour Papert e l’ambiente LOGO
Il pensiero computazionale, concetto per la prima volta espresso da Seymour Papert, ideatore dell’ambiente LOGO, viene infatti definito da Stefania Giacalone come “…processo mentale che consente di risolvere problemi di varia natura seguendo metodi e strumenti specifici, pianificando una strategia; abitua al rigore e quindi rende possibili gli atti creativi.”
In tal senso, appare evidentemente riduttivo assumere queste due espressioni (Coding e Pensiero Computazionale) alla stregua di sinonimi. Pensando piuttosto al primo come una opportunità, ma non la sola, per sviluppare il secondo. Per chi volesse approfondire quanto detto citiamo il link utile a leggere l’articolo citato (Che cos’è il pensiero computazionale? | Pearson)
Chiudendo questa necessaria parentesi, torniamo all’argomento in discussione: cosa è davvero il Coding? Quale la sua valenza didattico-metodologica? Ma soprattutto: quali sono gli aspetti del Coding in grado di “interferire” in termini multi e pluridisciplinari sull’azione didattica, non rischiando di essere relegato a momenti episodici di intervento laboratoriale, fini a se stessi?
Vi aspetto per parlarne nella seconda parte di questo contributo.
Autore
Giuseppe Albano Direzione A.N.F.O.R.
(Per informazioni, contributi, chiarimenti: direzione@anfor.it)